lunedì 4 settembre 2017

Chiacchierata con Alessandro Mari, su
"Cronaca di lei", la boxe e il riconoscersi

Buongiorno a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
Alessandro Mari è arrivato in libreria il 31 Agosto con il suo "Cronaca di lei", edito Feltrinelli (brossurato con alette a 17€), un romanzo che mi ha presa da subito e che ho divorato avidamente quando ero ancora in vacanza:
Lei, la ragazza, è un'aspirante modella che si guadagna da vivere come può. Lui, Milo One Way Montero, è un pugile che conosce una sola direzione, andare avanti, e che andando avanti ha conquistato il titolo di campione del mondo. I due si incontrano, si annusano, si perdono. Quando si ritrovano, lui porta sulle spalle il peso di una bruciante sconfitta e di un'operazione all'occhio che lo ha reso più fragile; lei sembra pronta a farsi custode di quest'inedita fragilità. Parlano la stessa lingua, una lingua fatta di corpi che si intrecciano, di frasi scarne, ma soprattutto di gesti: lei copre con la mano l'occhio di lui, lui fa altrettanto con quello di lei. «Mi vedi?» si chiedono. E finché continuano a vedersi - malgrado le paure di lui, malgrado l'inafferrabilità di lei - il resto è solo rumore di fondo. Ma quel rumore c'è, e interferisce. C'è la provincia post-industriale italiana che Milo si è lasciato alle spalle. C'è il grande ritorno sul ring da preparare con il sostegno di un intero clan. E c'è Irene, la sorella di Milo, che gestisce l'impero economico nato attorno al brand One Way, ed è pronta ad andare contro chiunque minacci di ostacolarla o anche soltanto di intromettersi. A osservare il clan Montero, Leo Ruffo, giovane scrittore ingaggiato da Irene per raccontare la vita del campione. E il biografo allora diventa confidente, testimone di quanto accade dentro e fuori dal ring. Ma da che parte stare? Da quella di Irene, disposta a tutto pur di tenersi stretti la ricchezza e i privilegi faticosamente conquistati? O da quella della ragazza, che adesso cerca redenzione e giustizia attraverso la vendetta?

Abbiamo avuto modo di incontrare Alessandro Mari a Milano, alla bellissima Fondazione Feltrinelli, e di scoprire insieme a lui la storia di Milo: ecco cosa ci ha raccontato!

"Cronaca di lei" è un romanzo molto più sobrio e asciutto rispetto ai tuoi precedenti. Ha tre cardini principali molto forti, a partire dallo scrittore Ruffo. C'è qualcosa di te in quest'uomo che viene ingaggiato per scrivere la storia di Milo, pugile che si trova in un momento difficile della vita?
Può essere che ci siano dentro delle cose mie, ma onestamente non ne ho idea. So cosa fa nella vita, ma nella pratica non ho idea di come funzioni il fatto di seguire uno sportivo per scriverne la biografia, che può diventare un capolavoro come quella di Agassi, scritta da un premio Pulitzer, ma di sicuro richiede un lavoro immenso. Agassi del resto è uno che adora raccontarsi, basta guardare le sue interviste. È sicuramente difficile riuscire a farsi raccontare la vita di un altro, sopratuttto i momenti più delicati.
Milo è un uomo che ha subito dei danni fisici: è stato operato a un occhio, e questo incide profondamente su di lui. Inizia ad avere paura dei colpi che riceve, sul ring e dalla vita.
Leo Ruffo con il suo lavoro deve farne la consacrazione, perché il clan di Milo è convinto della sua imminente vittoria. Ruffo diventa testimone di quello che deve raccontare, e possiamo dire che in generale la letteratura ha a che fare con la testimonianza.
E poi c'è Lei, la ragazza senza nome, un personaggio misterioso. Viene ingaggiata per fare pubblicità al business delle palestre in cui Milo si è cacciato con la sua famiglia e diventa un punto fondamentale nella vita del pugile. In un momento in cui i lettori vengono scaraventati all'interno delle storie e messi davanti a dei fatti ben definiti, in questo caso si trovano di fronte una storia che contiene molti punti oscuri, in cui sono lasciati liberi di immaginare il non detto, e di porsi delle domande.
Lei è la ragione per cui il libro si chiama "cronaca": racconto il personaggio vedendolo agire, muoversi sulla scena, per due ragioni. In questo momento di infinita trasparenza e sovraesposizione a livello quasi pornografico, trovo molto affascinante l'opacità, non solo dei corpi ma anche dei pensieri: scoprire una figura di donna solo dai suoi movmenti e dalle poche parole che dice, mi affascina. Come se in questo momento incrociassi lo sguardo di uno di voi e cercassi di scoprire i suoi pensieri senza che lui mi dicesse nulla.
Trovo meraviglioso provare a pormi nei panni altrui, anche se può sembrare una cosa idiota.
Il romanzo vuole che si desuma il personaggio vedendolo muoversi. Essendo una storia violenta diventa anche difficile seguirlo, e vederlo prendere delle decisioni difficili senza avere accesso ai suoi pensieri.
La seconda ragione è che il pugile è un uomo che deve combattere nudo, utilizzando il proprio corpo come fenomeno sportivo: la distinzione tra sport e spettacolo è ormai molto sottile. Anche la ragazza lavora con il corpo, visto che ha iniziato come modella. Da uomo, ho trovato affascinante l'idea di dare densità e tridimensionalità alla ragazza facendola agire, facendola muovere nello spazio.
In questo senso, il titolo è nato quasi subito, mentre scrivevo quella parte del romanzo attorno alla quale ho poi costruito tutto il resto.
Perché la scelta di lasciare la ragazza senza nome?
Paradossalmente, in una storia piena di dettagli e di nomi, il fatto che lei ne sia priva è quello che la caratterizza meglio. Raramente ho utilizzato il pronome lei riferito alle altre, cosa che è stata molto complicata quando ho scritto le scene in cui compaiono più personaggi femminili. Lei abita quel pronome, è "Lei", complementare del resto a Ruffo che si chiama Leo. Doveva conservare fino in fondo la sua opacità. Non ho mai pensato darle un nome e non l'ho nemmeno immaginato perché so che in quel caso, a un certo punto mi sarei tradito, scrivendolo.
Un nome l'avrebbe impoverita e le avrebbe dato la stessa dignità degli altri, mentre lei è a un livello più alto.
I personaggi comunicano in modo fisico in un libro che però è pieno di dialoghi, con una dicotomia netta, o no?
Come faccio a raccontare una persona se non dico cosa pensa? Paradossalmente nel romanzo i corpi dicono cose che le parole non possono raccontare. La mia fatica è stata quella di far comunicare alcune cose dai corpi e altre dai dialoghi. Milo e la ragazza, ad esempio, parlano pochissimo pur essendo protagonisti della storia d'amore del romanzo. Il loro rapporto è molto sessuale, ma il loro dialogo non è fatto solo di accoppiamento, anche del loro modo di stare uno accanto all'altra.
Lei non ha mai partecipato a un incontro di boxe eppure sa sempre dove collocarsi vicino a lui.
Avete presente quelle persone che sembrano sempre sapere esattamente dove stare in ogni circostanza? È formidabile capire come possiamo prendere il nostro posto anche in una storia d'amore. Le parole tentano di supplire nei punti più complicati, soprattutto per quanto riguarda il ruolo di Ruffo o di Irene, la sorella di Milo, che è un po' la sua anima nera.
In realtà capisco di aver fatto determinate scelte solo scrivendo, non prima. Le mie sono spesso reazioni istintive, non meditate a priori. Milo e Lei sono raccontati quasi esclusivamente nel loro quotidiano, al chiuso della loro intimità, pur facendo parte della pornografia dello spettacolo.
Da un lato hai inserito il tema della sovrapposizione, dall'altro hai come protagonista un personaggio il cui problema è vederci meno o in modo diverso: Milo a un certo punto sostiene persino che per lui forse era meglio prima, quando sentiva i colpi che riceveva, ma non li vedeva tutti (e quindi non poteva temerli tutti).
Una delle costanti del suo rapporto con Lei è questo chiedersi a vicenda "Mi vedi?": vedersi o non vedersi è una metafora della vita?
Il tema del vedere è fondamentale perché Milo sa chi è, ma quando vede meglio i colpi ne ha più paura. Il gioco del "ti vedo, mi vedi" funziona come forma di riconoscimento tra lui e Lei.
L'esito di una buona alleanza sentimentale tra due persone: si accorciano le distanze tra loro, anche se poi le circostanze della storia li possono allontanare di nuovo.

A proposito del ring: hai scritto un libro in cui il protagonista combatte, per cui ce lo immaginiamo a guadagnarsi tutti i suoi obiettivi e i suoi successi su un ring, secondo regole e tecniche ben definite, ma al tempo stesso hai creato una storia in cui ogni singolo combattimento vero e importante nella vita del personaggio si svolge al di fuori del ring. È così perché è così anche nella vita, perché non si combatte mai dove crediamo di doverlo fare, oppure voleva essere una finestra in più su un personaggio con tante sfaccettature, per cui non possiamo vederlo solo come Milo "One Way"?
È una bella domanda, e me la sono posta anch'io. La risposta è che la boxe è chiamata la nobile arte e ha delle restrizioni, ha un carattere codificato che le dà eleganza, mentre la vita non le ha. Per me il miglior pugile nel romanzo è Irene perché, nonostante donna, nel contesto di una provincia postindustriale ha saputo costruire attorno al fratello un vero impero economico. Si può discutere su cosa la porti a fare certe scelte, ma non si può negare il suo essere una lottatrice.
Anche Lei, all'inizio accetta certe regole del clan di Milo, accettando di combattere in un certo modo, ma poi queste stesse regole le infrange e fa delle cose che sono state inaspettate anche per me.
C'è sempre un momento in cui i personaggi dei romanzi ti sorprendono perché si dirigono da un'altra parte rispetto alle tue idee iniziali.
Milo è più codificato, ma anche lui non è così inadatto alla lotta fuori dal ring, anche se è molto più ingenuo degli altri personaggi. Sua sorella è senz'altro più acuta in questo senso.
Forse il meno combattente è Ruffo, ma perché il suo ruolo è diverso.
Hai citato Irene: puoi dirci qualcosa di più su di lei?
Se devo dare una rappresentazione plastica di questo romanzo è un ring con Irene e Lei ai due angoli e Milo nel mezzo, a ricevere i colpi di entrambe.
Irene è la figura più complessa perché è lei a dover prendere le decisioni più dure e drastiche. È un personaggio oscuro, ma in realtà non credo di averla mai incolpata di niente: mentre la descrivevo ho voluto creare due o tre aperture in lei, perché credo che il male in una persona nasca sempre da qualche problema e non sia atavico. Chi incontra un personaggio non deve avere l'impressione che sia del tutto nero, bidimensionale: ci vuole sempre un po' di chiaroscuro.
A moderare l'incontro, la bravissima Petunia Ollister
Irene tra l'altro si muove in un mondo come quello della boxe, che è al novanta per cento maschile.Non l'assolvo come personaggio, ma non posso colpevolizzarla del tutto.
Qual è stato il personaggio del romanzo che hai trovato più difficile da sviluppare e far muovere nella storia?
Ruffo. Essendo uno scrittore, era fin troppo facile cadere nello stereotipo. Si muove meno degli altri in un romanzo che è molto dinamico, perché ha una funzione riflessiva. Con lui in scena il ritmo cambia, perché è impegnato a prendere le coordinate delle cose, a capire i personaggi e gli ambienti. Anche il lettore deve cercare di entrare nel mondo della boxe, per cui possiamo dire che Ruffo è nella stessa posizione del lettore.
Però a un certo punto Ruffo diventa il narratore principale della storia.
Sì, lo è perché non è un testimone passivo. La mia generazione è diventata adulta iniziando a testimoniare un grande evento come la morte di Falcone e Borsellino. Noi siamo cresciuti così. Le vostre idee camminano sulle nostre gambe. Il fatto di testimoniare qualcosa per me è un lavoro attivo, una parte importante della scrittura, come quando riesci a far comprendere a un lettore un tipo di dolore che lui non può aver provato. Mi ricordo che da ragazzino mi aveva impressionato tantissimo, nell'Iliade, la descrizione di Priamo che va a riprendersi il corpo di Ettore, anche se parlava di un dolore che era al di là dellla mia comprensione.
Quindi è uno strumento di collegamento tra il lettore e la storia?
Sì, mi è servito essenzialmente per smorzare un po' i toni del racconto, che in realtà è molto duro. Non potevo prendere costantemente a pugni il lettore: è come una mano che metto ogni tanto sulla sua spalla. Ruffo ha avuto sempre più spazio, soprattutto in sede di revisione.

Nel romanzo si parla di un video e della paura di pubblicazione di questo video, e io ho immediatamente pensato ad alcuni fatti di cronaca recente.
Ti sei ispirato a quelli consapevolmente o in modo casuale?
Nel romanzo ci sono tutti i gradi di utilizzo del corpo fino al ricatto pornografico, che è un tema attualissimo, sempre legato all'esposizione di sè. Finché rimane intima non la chiamiamo pornografia, ma diventa tale se diventa pubblica. Questi casi sono ormai frequentissimi, oltretutto in tutte le fasce di età. Questo utilizzo brutale del corpo è stato un punto importante su cui soffermarmi.
Alessandro Mari e Petunia Ollister
Nelle descrizioni iniziali i colori sono molto accesi, quasi espressionisti. È stata una scelta istintiva?
Avete presente "Uomini e topi"? C'è una scena iniziale in cui Steinbeck continua a usare gli stessi aggettivi, riempiendo tutto di verde. È una scena che mi ha ossessionato per anni. I colori vivaci aiutano ad alleggerire la narrazione.

Spesso la letteratura è mediocre perché racconta tutto, senza richiederci un livello minimo di empatia e partecipazione. Quanto è difficile per te, invece, non svelare tutto, non esporsi, giocare sul detto e non detto, e quanto facile sarebbe invece raccontare con scioltezza il prima, il durante e il dopo?
Comodo di sicuro potrebbe esserlo, nel senso che lo sforzo sarebbe minimo, però io scrivo i libri che mi piacerebbe leggere e quindi questa cosa la sento molto. La difficoltà del gioco di sottrazione, almeno per quanto mi riguarda, è stata nel costruire al millimetro le scene e poi decidere cosa levare in modo che restassero comunque comprensibili, a volte magari chiedendo uno sforzo a chi legge, perché da lettore mi sento lusingato se mi viene richiesto uno sforzo interpretativo. Penso che sia sufficiente evocare qualcosa, come fa per esempio Cormac McCarthy.
A me infatti interessava sapere quanto del tuo linguaggio  poteva venire dalla lettura di McCarthy.
Sicuramente parecchio, ma più dai suoi libri vecchi, quelli degli anni Settanta. Da lettore lo trovo una grande sfida. Nonostante la sua scrittura sia in apparenza povera riesco a ricostruire bene la psicologia dei suoi personaggi.
Credo che questa ricerca per me sia incominciata col mio secondo libro, quello su Francesco D'Assisi, che poi è uno che si spoglia di tutto, per cui la mia scrittura partiva con abbondanza per poi prosciugarsi verso la fine.

Sul rapporto tra scrittura e sport: che tipo di allenamento è servito e quali sono state le più grandi sfide da sostenere, durante la stesura di questo romanzo?
Da scrittore, sei come un atleta che deve affrontare un'esibizione di fronte a un pubblico: passi ore e ore a scrivere completamente da solo, poi hai il tuo clan - lo scrittore amico, la moglie, l'editor - che ti sostiene, infine hai il momento pubblico in cui devi esporti. Lo affronti con la discliplina. Il talento sportivo e artistico conta per un venti per cento, il resto lo fa la disciplina,che ti fa capire se vale la pena o no rinunciare a fare altre cose, a vedere le persone, per chiuderti a scrivere.
Hai sofferto di qualche blocco dello scrittore durante la stesura?
No. È stato molto complicato scriverne la prima metà, poi nella seconda parte mi sono molto divertito. Il peggio arriva dopo, quando inizi a rileggerti.
Però hai il conforto di poterti sempre misurare con chi ti dà una mano.

Sei uno scrittore “puro”, vivi e lavori di scrittura e quando sei impegnato nella stesura di un libro ti eclissi per mesi. Fai il traduttore, insegni scrittura.
Hai deciso giovanissimo di fare lo scrittore?
Sì e no, nel senso che non sono di quelli che scrivevano poesie a sei anni o facevano grandi temi a scuola. Fino a diciotto anni non sapevo mettere le parole in fila. Scrivevo male, verosimilmente perché non avevo ancora la capacità di tradurre in parole le idee che avevo o pensavo di avere.
Però ho sempre avuto la passione dell'ascolto.
Mio nonno era un illetterato completo e faceva il camionista, quel mestiere per cui vai da qualche parte e poi torni a casa con una storia, a volte magari la stessa che si divertiva a truccare un po' se non ne aveva una nuova. Mi affascinava il meccanismo retorico con cui mio nonno voleva mostrare di essere uno che ne sapeva della vita raccontando una storia.
Dall'ascolto e dalla lettura di bei libri alla scrittura il passo è breve. Dopo aver ascoltato a lungo ti ritrovi con tante idee in testa e ti viene da pensare che una tua storia possa interessare a qualcuno.
Nel mio caso, il mio primo libro era una storia troppo lunga: avevo scritto milletrecento pagine prima che la casa editrice le riducesse a novecento.
Era necessario lavorare con dei veri professionisti per portare a casa un risultato del genere.
Da ragazzo più che scrivere facevo tanto sport, anche a livello agonistico, e quello è un tipo di disciplina che poi ti porti dentro nella vita e anche nella scrittura.
A un certo punto facevo pallanuoto e mi allenavo due volte al giorno, prima di andare a scuola e poi dopo la scuola.
A ripensarci adesso eravamo pazzi: dove trovavamo poi l'energia per fare una  vita normale?
Il nuoto tutto sommato mi sembrava paragonabile alla solitudine del raccontare storie.
Io vivo la maggior parte del tempo da solo a litigare con le pagine, con lo schermo del computer, con le mie paranoie.
Francesca Zoni, autrice della copertina e protagonista un bellissimo live-drawing

A Francesca Zoni, infine, chiediamo qualcosa sulla genesi della copertina.
Quante versioni ne sono state realizzate?
In principio era stata pensata in bianco e nero. Quando ho iniziato a lavorarci avevo letto solo poche pagine del romanzo, ma avevo capito che la difficoltà stava nel rappresentare graficamente un personaggio che nel libro viene descritto in maniera tangenziale, solo attraverso lo sguardo degli altri personaggi. Si trattava di darle un volto, ma senza caratterizzarla in maniera troppo precisa. Ho fatto molte versioni raffigurandola in bianco e nero, di spalle, con dei segni forti che esprimessero la violenza presente nel libro. Poi ho ricominciato da capo: nel frattempo avevo letto tutto il libro e la chiave di volta è stato inserire il secondo personaggio, attraverso il braccio che l'afferra ed esprime la violenza. Alla fine ho scelto colori forti, invece del bianco e nero, ed è nata la copertina che vedete ora.

Non posso far altro che consigliarvi con il cuore in mano la lettura di "Cronaca di lei" di Alessandro Mari, che è stato una bellissima scoperta e che ora sento di conoscere un po' di più, e ringrazio ancora Feltrinelli per la possibilità di questo incontro.
Spero vi sia piaciuto partecipare "per interposta persona"!

Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3

Nessun commento :

Posta un commento